Balmat e Paccard: simboli della storia alpinistica

17 gennaio 2014 at 11:12

Paccard e Balmat

In quanti modi si può intendere la parola Cammino?
Andrea Marini, filosofo e ricercatore racconta – attraverso l’esperienza dei primi due alpinisti Paccard e Balmat – che esiste un Cammino in senso filosofico-esistenziale e un cammino che mobilita il Sè per raggiungere la vetta, la meta, il fine.
La montagna riunisce i due significati in una metafora per chi la affronta… in esergo, Valter Bonatti.

 

Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono,

altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi.

 W. Bonatti

 

 

La montagna non è solamente un inerme ammasso di pietra e terra. È questo e molto altro.
È segno della natura e della storia, dello spazio e del tempo; è un simbolo che storicamente è andato mutando, con frequenza variabile. Il cambiamento non è qualcosa che avviene nell’instante dell’accadere, ma un lungo percorso preparatorio che ha un incedere singolare. Le terre alte, dunque, non sono solamente la spazzatura del mutamento della terra attraverso i secoli – come diceva John Evelyn delle Alpi; non sono solo ostacoli da oltrepassare – come lo erano stati per migliaia di viaggiatori o commercianti – o traguardi da raggiungere, come diverranno in seguito. Sono elementi caratteristici di un ambiente, di un territorio, di un paesaggio. Le Alpi sono il simbolo forse più autentico e plenario di tutto ciò. Quando Horace-Bénédict de Saussure alzò gli occhi al cielo, presumibilmente una mattina, e notò che il paesaggio che aveva di fronte – costante negli anni della sua vita, quasi inerme e immobile – aveva delle linee e degli elementi di bellezza unici, capì che gli parlava in una lingua che un grande scienziato come lui non poteva non riconoscere: la natura gli si rivolgeva mostrando una grafia che l’uomo a lungo ha tentato di decifrare, tramite segni che solo lo sguardo più attento e curioso riescono a cogliere nella loro particolarità e unicità. Quando il 3 agosto del 1787 il ginevrino giunse sulla vetta da lui tanto agognata, quella del Monte Bianco, non si lasciò trasportare però da sentimentalismi romantici, ma con audace spirito illuministico calpestò con vigore la neve e il ghiaccio che tanto lo avevano fatto stremare in quella lunga scalata al tetto d’Europa. Calpestò con vigore perché l’uomo, allora, si sentiva protagonista della storia universale. Pochi avevano fatto proprie le verità che le scienze e le filosofie stavano divulgando. L’uomo non era il re, ma semplicemente un elemento partecipante la grandezza della natura.
Così, de Saussure portava in sé la meraviglia e il dominio tipico di un’epoca, ma anche la brama e l’invidia. Infatti, quando pubblicò il secondo volume dei suoi Voyages dans les Alpes, 1778, non incluse tra i grandi esploratori del massiccio del Monte Bianco uno scienziato come lui: Michel-Gabriel Paccard. Quest’ultimo è ormai riconosciuto universalmente come l’artefice e il trascinatore della cordata – strano nome visto che allora si procedeva ancora slegati – che portò l’uomo sopra la vetta più alta d’Europa. Con lui vi era Jacques Balmat, cercatore di cristalli, conoscitore dell’ambiente alpino e, da quel momento, alpinista.
Poco meno di un anno prima dello scienziato di Ginevra, i due personaggi appena citati – per la precisione l’8 agosto del 1876 – posero i loro piedi su quella vetta da tanti bramata vuoi per il prestigio, vuoi per il succulento premio messo in palio da de Saussure per chi avesse trovato la strada per raggiungere la sommità del monte pallido per eccellenza, vuoi per il desiderio di scoperta e avventura. Ma un mito in quell’istante era caduto, gli spiriti cacciati da quelle altezze, ciò che era maledetto – Mont Maudit – era stato liberato dal suo fardello. Uscire dal mito ed entrare nella storia. Ma ben altro accadde quel giorno: iniziò una rivoluzione. Le Alpi non furono più solamente un luogo di passaggio, ma divennero un luogo di studio, di unione e divisione, un luogo di turismo, ma soprattutto lì nacque ciò che per noi ancora oggi è l’alpinismo. Non vogliamo qui ripercorrere le tappe di questa lunga storia che ancora oggi prosegue e nemmeno vogliamo riscrivere la storia di quei due giorni memorabili, ma solamente continuare a riflettere sui due principali protagonisti della prima salita al Monte Bianco.

Paccard e Balmat, citati in rigoroso ordine d’arrivo su quel cumulo di neve oltre il quale non si poteva che scendere, racchiudono in loro stessi due spiriti che hanno animato l’alpinismo e la sua storia.

Michel-Gabriel Paccard era un medico, giovane, laureato da poco all’Università di Torino che, per desiderio di scoperta e di conoscenza, aveva risposto al richiamo desaussuriano, tentando svariate volte di trovare la via giusta per la conquista della splendida vetta. Nei suoi anni di esplorazione alle pendici del Monte Bianco, il medico fu nominato anche socio e corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Il fardello non era quindi solo quello dello scienziato, ma portava su di sé le speranze della ricerca e della scoperta di un regno perché lì rappresentava più che la sua persona. Se -come dicevamo in apertura – le montagne non sono solo pietre, allora le persone e soprattutto chi fa la storia delle montagne non è solo carne e non è mai completamente solo; porta con sé, costantemente, le speranze e i desideri di molte altre persone – consciamente o meno. Lo spirito che lo animava era dunque affine a quello del borghese de Saussure, uno spirito di ricerca e di scoperta, tale che lo stesso Paccard, in quei due incredibili giorni, oltre alle provviste si portò sulle spalle pure gli strumenti necessari per le misurazioni scientifiche. Tant’è che si fermò alcune volte durante la sua salita per aggiornare e segnare il barometro. Questo non lo portò ad avere risultati esatti sull’altezza del Re d’Europa, ma dimostra quanto il suo spirito non era solo di dominio della natura: infatti non calpestava il ghiaccio e la neve, ma camminava alla ricerca di sapere e di un non-più-oltre che gli strumenti non potevano fornirgli. Era animato da uno spirito puro non corrotto da denaro: era mosso dalla curiosità, dal desiderio della scoperta che lo portarono – come la storia ha insegnato – ad arrivare primo su quel cucuzzolo. Non primo per un primato, non primo per un premio, ma per l’umanità e la conoscenza, per capire la grafia e il linguaggio della natura. Solo attraverso un’esperienza diretta, viva e attiva della natura grazie a uno sguardo contemplatore, si può giungere a scoprire il progetto implicito della natura e di quell’incredibile paesaggio. Fu – infatti – una sua intuizione dovuta ad uno studio mirato e approfondito del territorio, una dettagliata analisi geografica sul campo, a portarlo a trovare la via che si è poi rivelata quella giusta e vincente per quanto perigliosa e difficoltosa. Quel desiderio, quella volontà di potenza e conoscenza, è ciò che gli fece afferrare Jacques Balmat per il cappotto spronandolo a fare gli ultimi passi – e non il contrario come bugiarde storie raccontano. Paccard era mosso da uno spirito antico quanto l’uomo: era lo spirito della conoscenza.
Questa è una delle anime che mosse e muove ancora l’alpinismo in ogni parte del mondo e che ancora può fare tanto per il rapporto tra l’uomo e la montagna e più in generale tra l’uomo e la natura. Questo perché l’alpinismo non è solo l’arte di salire le montagne, ma è un modo di vivere ed esplorare il mondo in tutte le sue dimensioni e sfaccettature.
L’altra anima è quella rappresentata dal non meno importante Jacques Balmat. Il nostro montanaro di Chamonix vanta non solo il primato dell’ascesa al Monte Bianco, ma porta con sé e in sé un modo di vivere più schietto forse, sicuramente meno scientifico di quello rappresentato da Paccard, che narra dell’anima solitaria e introversa del montanaro e  dell’alpinista.
Balmat era un cacciatore di camosci e un cercatore di cristalli che faceva della montagna la sua vita e il suo lavoro. Era un tipo solitario, giovane e forte che per necessità rispose alla chiamata di un bando nel quale si prometteva un premio a chi avesse per primo individuato la via alla cima. Balmat non rispose al bando per brama di soldi, ma per necessità. Non era un uomo ricco e nemmeno benestante – se seguiamo i criteri della cittadinanza borghese, ma era un uomo che lavorava duramente e viveva la montagna nel sua aspetto più naturale, come elemento necessario al proprio sostentamento. Se Paccard durante l’ascesa, infatti, si fermò alcune volte per compiere delle misurazioni, è pur vero che Balmat durante i suoi tentativi di salita, sino al definitivo dell’8 agosto, aveva sfruttato le occasioni per cercare cristalli così da unire entrambe le necessità del momento.
Era anche lui molto intuitivo e forte fisicamente: anche se considerato un abusivo dalle guide di Chamonix – come ci ricorda Enrico Camanni, era da tutti ben voluto in quanto abile e robusto portatore e infaticabile camminatore. Sperimentò, durante uno dei tentativi, il primo bivacco sul ghiacciaio senza che gli spiriti lo intimorissero o torturassero nel sonno. Sopravvisse. Questa esperienza, come quella paesaggistica-indagativa di Paccard, furono altrettanto fondamentali per dare il via alla scalata definitiva che consacrò il sodalizio alpinistico tra uomo e montagna. Il resto è ormai storia e i più validi storici dell’alpinismo hanno già impresso la loro firma narrando questa incredibile e particolare vicenda.
I nostri due esploratori, come abbiamo visto, incarnano quindi due spiriti della storia alpinistica, quello più scientifico e filosofico e quello più pratico e legato ai bisogni di natura.
Noi crediamo che solo recuperando, diffondendo, ma soprattutto, integrando questi due spiriti e prospettive sulla montagna si possa fare molto per le montagne, le Alpi e l’uomo stesso. Nei momenti di crisi bisogna saper creare dei miti e coglierne gli insegnamenti che sanno darci. La crisi che il mondo attraversa non è solo economica, ma soprattutto una crisi di valori nichilistica. Ciò che le montagne e gli uomini di e della montagna possono insegnare è scritto e quotidianamente viene scritto con nuove esplorazioni e scoperte. La montagna è un elemento da vivere, studiare, capire ma soprattutto rispettare. Il Monte Bianco non è stato scalato grazie alla tecnica, ma in virtù della tenacia, dell’armonia con la natura, del desiderio e del genio. È un ambiente che ci ricorda che il progresso non avviene per sostituzione, ma per trasformazione – a volte molto lenta. Le Alpi più di tutti gli ambienti montani ci ricordano questa cosa e continuamente ci suggeriscono elementi per creare nuove prospettive comunitarie, economiche e politiche. Che le montagne siano simbolo di unione e armonia, non solamente delle pietre e che gli uomini siano degli Uomini, non solamente dei consumatori di terra.

Andrea Marini

Andrea Marini, laureato in filosofia con una tesi sul concetto di spazio nella prospettiva geofilosofica, collabora con le cattedre dei professori Davide Bigalli e Luca Bonardi, con le riviste “Nomos” e “Antarès”. Sta conseguendo un dottorato di ricerca in beni culturali e ambientali con una tesi sulle prospettive geofilosofiche delle Alpi a partire dall’analisi della storia dell’alpinismo. Svolge attività di ricerca su problematiche di natura estetica, paesaggistica, geopolitica e geofilosofica