Storia di un seme. Di un uomo che cammina e semina. Di un frutto.

23 dicembre 2013 at 09:07

Auguri

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.

Un passo dopo l’altro, John creò un frutteto.
Questo è l’incipit di una bella storia.

Ma possono essere legati la storia di un Cammino e quella di un frutto? Henry David Thoreau, che di cammino ne capiva, scrisse: “È sorprendente quanto la storia del melo sia strettamente legata a quella dell’uomo”.

Il nome dell’uomo? John Chapman, alias Semedimela che – recuperando i semi del pomo dagli scarti dell’industria del sidro a cavallo dell’Ottocento – iniziò a esplorare la frontiera americana anticipando l’arrivo dei coloni, spargendo i semi e impollinando la terra come un’ape laboriosa.

Robert Price, il suo biografo, disse di lui che “possedeva la spessa corteccia della stramberia”: uomo senza fissa dimora nei suoi vagabondaggi dormiva all’aperto, era vegetariano, considerava crudele abbattere alberi e cavalcare animali, iniziò a camminare scalzo dopo aver pestato con lo scarpone un lombrico.

Il suo profilo divergente, esasperato dal desiderio prometeico di piantare meleti, incontrava il favore degli americani cui portava l’edonismo del mito dionisiaco: l’ebbrezza del sidro. L’America, terra poco adatta alla crescita della vite, stimolava la ricerca del piacere col sidro, nonostante i suoi figli avessero giurato che non era questa la scaturigine del loro viaggio tra le due coste dell’Atlantico.

Ma il cammino della storia della mela era iniziato tempo prima: il melo è originario delle alture del Kazakhstan, dove passava la derivazione settentrionale della Via della Seta. Il nome Alma Ata, la città kazakha, significa “Il padre delle mele”. Da qui, il seme fu portato in Occidente dai mercanti di ritorno dalla Cina – magari sotto la suola delle scarpe o avvolti in brandelli di broccati di seta colorati. Vogliamo solo immaginare l’autunno Kazakho, le sommità delle alture spalmate di punti colorati che si spingono fin dove riescono a scendere a patti con l’altitudine quasi fossero appesi alle nuvole. Poi il seme giunse in America via mare coi Padri Pellegrini.

Il rispetto integralista di Chapman per la Natura, il suo ecologismo inconsapevole e reticente (e chissà: avrebbe accettato questa facile riduzione di sé?), fece sì che continuasse a diffondere semi dai sacchi di iuta e dalle tasche, confutando eticamente la tecnica dell’innesto inventata dai cinesi perché troppo dolorosa. Ma che indubbiamente produceva frutti dal sapore migliore: i meli nati da seme sono “talmente aspri da legare i denti a uno scoiattolo” avvisa Thoreau, che nel corso delle sue passeggiate deve averne assaggiate parecchie di malus domestica frutto dell’inseminazione casuale, paradigma romantico di quella riproduzione spontanea oggi dibattuta anche dagli esperti. Ma il puritanesimo aveva chiuso un occhio sull’edonismo suscitato dall’alcol in virtù delle immangiabili mele di John, nonostante al dio greco Dioniso la religione dei padri preferisse il culto del pensiero geometrico di Apollo (e si sa quanto sia difficile concepire antinomie vivendone la bellezza della mediazione pur conoscendone gli estremismi).

La storia della mela racconta più di altre la bontà del movimento in luogo della stasi con il suo spostarsi da un continente all’altro; quanto sia necessario descrivere e percepire il mondo come il posto del cambiamento di Eraclito, mentore di John Semedimela, piuttosto che il regno della stasi di Parmenide: questi non avrebbe previsto un futuro così glorioso per alcun essere vivente, considerando che la pura reiterazione dell’esistenza, in fondo, non è vita.

John Semedimela ha assecondato l’avanzamento della frontiera rispettando la natura; ha reso ebbro un popolo che voleva crescere all’ombra del Puritanesimo razionalista; ha rifiutato la vivisezione vegetale pur addomesticando la pianura ai suoi obiettivi con il fare sognatore di chi ama la montagna. Un vero funambolo degli opposti.

Elzeard Bouffier, “L’uomo che piantava gli alberi” piantava querce in montagna e sarebbe un bell’esercizio di critica letteraria azzardare un confronto tra i due, nella consapevolezza che il secondo è un personaggio inventato e, come tale, sempre all’altezza delle sovrapromesse fatte al lettore.

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.
Se avete la fortuna di conoscere una persona con queste “dolci” qualità ( è questo l’archetipo culturale, e non solo organolettico, della mela secondo l’autore), e a cui non avete ancora, colpevolmente, fatto un regalo: Michael Pollan, La botanica del desiderio, il Saggiatore.

Trattandosi, Pollan, di un brillante giornalista ambientale, le aporie scientifiche a vantaggio della narrazione sono della scrivente. Me ne assumo la responsabilità rivolgendovi auguri succosi!

Azimut domenicale – La bellezza del cammino

15 dicembre 2013 at 11:04
Lago Scaffaiolo

 

“Non c’è niente di meglio; avanzare grazie alle proprie forze, un piede davanti all’altro ed entrare in una specie di oblio che allo stesso tempo è accresciuta presenza”

 

Tomas Espedal ha diffuso in questa pagina la bellezza cinestetica del cammino e della Natura. Un moderno Pascoli, un antagonista della mitologia urbana, in prosa.

 

Quando gli scarponi sono buoni, quando gli zaini non pesano troppo e non si sentono sulla schiena, quando i vestiti sono asciutti e non ancora fradici di sudore o pioggia, è bello camminare. Non c’è niente di meglio; avanzare grazie alle proprie forze, un piede davanti all’altro ed entrare in una specie di oblio che allo stesso tempo è accresciuta presenza; dimentichiamo che stiamo camminando, dimentichiamo l’atto stesso del camminare e gli sforzi del movimento, e al contempo la vista e l’udito sono più attenti, l’olfatto più fine, viviamo tutto con maggiore intensità. Un uccello si alza in volo, la luce del sole colpisce le cime degli alberi, il vapore si alza dal terreno. Una piccola macchia di anemoni dei boschi risplendono, Acqua che scorre, acqua silenziosa. Un torrente, la trota riposa dietro le rocce in un gorgo, beviamo l’acqua. Neve che si scioglie, impronte nella neve. Una coperta acquitrinosa, eriofori che ondeggiano al vento. Pensiamo meno quando camminiamo a lungo, scivoliamo nel ritmo della marcia e i pensieri cessano, si trasformano in concentrazione su quello che vediamo e sentiamo, quello che odoriamo; questo fiore, il vento, gli alberi, come se i pensieri venissero riplasmati diventando parte di quello che incontrano; un fiume, un monte, una strada.
Non passa molto tempo prima che gli scarponi sfreghino contro i piedi e che i vestiti si inzuppino di sudore e l’unica cosa che pensiamo è dove cercare riparo dal sole. Una dura salita, il caldo che brucia, abiti troppo pesanti, il peso degli zaini, i muscoli che fanno male, il cuore martella, il respiro pulsa, le gambe che prima si muovevano da sole ora non vanno più, le spingiamo, le costringiamo ad avanzare. Abbiamo una regola, un accordo di non lamentarci mai, di non lagnarci l’uno con l’altro; basta una sola espressione di disappunto quando la marcia diventa pesante per rovinare la giornata ad entrambi. Lamentarsi può compromettere un viaggio intero, lo sappiamo, camminiamo in silenzio. E’ questo silenzio a far sì che andiamo d’accordo, che insieme possiamo andare lontano, che ci sopportiamo senza quasi creare distanza; non c’è nessuna distanza tra noi se non quello che pensiamo e i cento metri che ci separano durante la marcia; camminiamo ciascuno per proprio conto, ognuno nel proprio silenzio.

 

Tomas Espedal Camminare, Ponte alle Grazie, 2009
 

Lago Scaffaiolo – Appennino Modenese -  Foto di Valter Fini gentilmente concessa per amicizia di lungo cammino. Grazie.

Sulle tracce di Paul Salopek

10 dicembre 2013 at 10:18

PAUL SALOPEK

 

 

Il passero sulle tracce di Paul Salopek, il due volte Premio Pulitzer, che vede il suo futuro a bordo di un paio di scarponi: per sette anni camminerà ripercorrendo il viaggio dei primi uomini che lasciarono l’Africa per diffondersi nel globo fino alla Terra del Fuoco.

 

Anatomia di una mente compiuta: sulle tracce di Paul Salopek

“Camminare è cadere in avanti.

Ogni passo è un tuffo bloccato, un crollo scongiurato, un disastro evitato. In questo senso, camminare diventa un atto di fede che si ripete ogni giorno: un miracolo in due battute, un tenersi e lasciarsi andare. Per i prossimi sette anni cascherò in giro per il mondo.

Sono in viaggio. Inseguo un’idea, una storia, una chimera, una follia forse.”

 

Così inizia la prima tappa di un lungo e anti-giornalistico reportage storico, antropologico ed etnografico firmato dal giornalista e scrittore statunitense Paul Salopek.

Ma chi è costui? Occhiali, sguardo prensile, capelli rasati, 2 premi Pulitzer, un futuro nuovo che inizia con 33 mila chilometri. A piedi.

Questo, l’anello semantico di un rivoluzionario beachcomber  alle prese – da gennaio 2013 – con il trekking più lungo della storia: 7 anni, dalla Rift Valley alla Terra del Fuoco attraversando l’oceano, sulle orme dei primi colonizzatori del globo terracqueo.

 

I suoi progenitori? Con lui, in trigono perfetto: Jeff Jeffries (James Stewart) il fotoreporter innamorato – con qualche imperdonabile resistenza – di una dea, Lisa Freemont (Grace Kelly) ne La finestra sul cortile. E Bryan Brown, il giornalista del National Geographic sedotto, nelle avviluppate foreste del Congo, dall’intelligenza appuntita e dalla bellezza sportiva di Diane Fossey (Sigourney Weaver) naturalista-ricercatrice di Gorilla nella nebbia. Il primo: ricercata eleganza da grande Gatsby; il secondo, corporeità misurata da Bruce Chatwin.

 

Il suo antenato? Lo storico Erodoto che – nel V sec. a. C. – girava per il Mediterraneo raccontandone le storie e le genti, badando poco alla scientificità di un metodo non ancora inventato: previsti piccoli camei di personaggi mai esistiti, fatti non accertati, impressioni personali.

 

Ed è a partire dalle traiettorie sghembe dei suoi interessi; dal linguaggio letterario – più che giornalistico; da ciò che lascia conoscere di sé grazie a ciò che scrive che ricalcheremo l’anatomia – non autorizzata – dei suoi pensieri. Che cosa farà durante le soste mentre ripercorre il primo pellegrinaggio proto-imperialista della Storia? Accenderà un lume a olio; leggerà da un Mac; scriverà un post per il suo blog Out of Eden Walk dall’iPad; chiacchiererà nella redazione viaggiante in un inglese che, attraversato da un accento culturale all’altro, sembrerà tante lingue diverse; manderà la foto delle mani, indurite dal sole e arrossate dall’henné, di una guaritrice beduina che cauterizza parti del corpo come terapia; telefonerà nell’altro emisfero a chi si chiederà se sia credibile l’amore di un uomo in preda all’erranza millenaria; registrerà i ritmi ancestrali dei canti di chi naviga e sosta nel deserto, anelando alla sponda opposta come un marinaio della duna. O forse: avrà portato con sé la famiglia, vivendo un Cammino di formazione che nessun’altra esperienza didattica potrebbe surrogare. Lo vedo – disteso su una branda di bambù coperta da un batik colorato che rilascerà il blu dove sentirà più caldo – fumare (una Pall Mall, certo) e bere tè alla menta; ascoltare la voce mantrica di Lisa Gerrard che vibra l’Amen apotropaico di Song of dispossessed:

 

The river is deep and the mountain high

How long before the other side

 

Da giorni seguo le sue orme, preferendo alla scienza aristotelica un orientamento patafisico al mondo. Mi incuriosiscono i suoi dispacci postati sul blog, unici indizi per scoprire quale tipo d’uomo sia questo bucaniere scarponiaipiedi. Il caso, come in molte scoperte, ha fatto il resto. Consigliata da Caterina Venturini, ho iniziato a leggere ‘Libertà ‘ di Jonathan Franzen. Quello che vi ho trovato a pagina 14 è stato un vaticinio. C’è chi ha reso letteratura i miei gusti in fatto di Teste ben Fatte:

 

Connie non costituiva una minaccia per una persona compiuta come Jessica. Connie non sapeva che cosa fosse la completezza: era tutta profondità e niente superficie. Quando colorava con i pennarelli, si limitava a saturare d’inchiostro qualche zona del foglio, come incantata, lasciando il resto in bianco e ignorando le allegre esortazioni di Patty a provare qualche altro colore.”

 

Una testa è ben fatta, come quella di Jessica, se è un’apologia della completezza,  flessibile a varie forme di conoscenza, se tratta con cura ogni singolo dettaglio compresi i più belli, quelli frivoli. Immagino così questo globe-trotter: un uomo dallo sguardo ecologico; una persona che – learning by doing – fa di sé un ecosistema di saperi intemperanti e sconnessi, raccontando con intensità e integrandosi in ciò che vede.

 

Volete una prova dell’anatomia di uno sguardo completo del moderno Erodoto? Sedetevi, ascoltate la canzone  dei Dead Can Dance e leggete: questa è una mia traduzione dall’inglese del suo ultimo post. È stato scritto in Arabia Saudita, sul Mar Rosso: 11 mesi di futuro sono già alle spalle. Il suo sguardo ipertrofico sulla natura e la Storia è attento alle parole che risuonano come solo uno scrittore sa fare; è carico di rimandi culturali e storici, che nascondono interessanti novità.

 

Cacciamo e facciamo provviste sul Mar Rosso.

Gassman al Faidi, il nostro nuovo addetto alla logistica, giovane e carismatico Hemingway, dispone le lenze tra le onde della sera. Lo fa più e più volte arrotolando il fine filamento all’indice. Sente il lento richiamo dell’onda, la vibrazione dell’uncino quando urta i coralli, la leggera spinta provocata dalla bocca di un pesce quando prova l’esca 20 o 30 yards sotto il pelo dell’acqua.

Stiamo facendo così da molto tempo: l’amo più vecchio, fatto di conchiglia, è stato trovato a Timor Est in una grotta marina. Risale a 23 mila anni fa.

 

Ma noi vagabondiamo da prima. Nel Pleistocene, 60 mila anni fa, quando gli uomini anatomicamente compiuti lasciarono l’Africa per diffondersi nel mondo, il livello delle acque del mare era più basso di quello attuale. La teoria prevalente sostiene che gruppi di camminatori cacciatori percorrevano le diffuse rotte create dai recenti terrazzamenti. Emergevano ponti di terra che facilitavano gli spostamenti. Sotto il Mar Rosso, una montagna – chiamata Hanish Rill- può aver spinto da sotto le onde offrendo punti di appoggio tra l’Africa e l’Asia, facilitando così la traversata a nuoto o in canoa. Nuove scoperte riscrivono i libri di Storia, modificando le nostre cognizioni sulle colonizzazioni costiere dei primi uomini.

 

Non continuerò traducendo l’intervista a un Funzionario della Cultura dell’Arabia Saudita il cui titolo, però, può essere chiarificatorio: il Mar Rosso. Un ponte, non una barriera. (Leggetela, merita).

 

Dalla preistoria via paleontologia; dalla cultura via piatti tradizionali, Paul Salopek racconta il mondo con il linguaggio universale della fotografia (correte a guardare e poi … Tornate!), con dispacci di narrazioni ‘lente’, ponendosi all’origine di un nuovo genere narrativo, lo slow journalism, che forza contenitori nati per soddisfare curiosità rapide e che non temono la superficialità, laddove necessiti: blog e social media. Lui ha abiurato a questo genere: i suoi post sono lunghissimi – a volte colti, altre divertenti; vi si narrano dettagli che affondano nelle discipline più varie, mettendo alla prova una visione anti-monolitica del conoscere, la curiosità di raccontare dettagli irrelati, approfondire minimalia senza attribuire gerarchie alla conoscenza. Rispetta, così, la mente  e i principi sottesi alla scoperta più che alla comunicazione.

 

D’altronde: uno degli sponsor del viaggio, oltre al National Geographic e a qualche altra non minore istituzione, è l’Università di Harvard: è stata predisposta una sezione del blog dedicata alle risorse didattiche. Tutte le scuole possono accedere a questa esperienza inserendo nella routine della pratica – senza rischio alcuno di banalizzare – un sapere dinamico di notevole interesse storico, naturalistico, scientifico.

 

Quale frase rappresenta meglio Paul Salopek? ”Se in un primo momento l’idea non è assurda, allora non c’è nessuna speranza che si realizzi” – Albert Einstein. Incisa?

 

Camilla Paolucci

 

Disegno di: Lorenzo Paolucci

il sito: http://www.outofedenwalk.com

il blog http://outofedenwalk.nationalgeographic.com