Tutto è solo una strada tra tantissime possibili

2 marzo 2014 at 11:59

equilibrista

 

DON JUAN: «Tutto è solo una strada tra tantissime possibili. Devi sempre tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo una strada e che non c’è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero dalla paura o dall’ambizione.»

«Ti avverto. Guarda ogni strada attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda. Questa è una domanda posta solo da un uomo molto vecchio. Il mio benefattore me l’ha detta una volta quando ero giovane, e il mio sangue era troppo vigoroso perché la comprendessi. Ora la comprendo. Ti dirò che cosa è: “Questa strada ha un cuore?” Tutte le strade sono uguali; non portano da alcuna parte. Sono strade che passano attraverso la boscaglia o che vanno nella boscaglia. Nella mia vita posso dire di aver percorso strade lunghe, molto lunghe, ma io non sono da nessuna parte. La domanda del mio benefattore ha adesso un significato.”Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona. Se non lo ha non serve a niente. Entrambe le strade non portano da alcuna parte, ma una ha un cuore e l’altra no. Una porta un viaggio lieto; finché la segui sei una sola cosa con essa. L’altra ti farà maledire la tua vita. Una ti rende forte; l’altra ti indebolisce.»

CARLOS CASTANEDA: «Ma come si fa a sapere quando un sentiero non ha un cuore, don Juan?»

DON JUAN: «Prima di inoltrarti in esso poniti la seguente domanda: “Questa strada ha un cuore?” Se la risposta è no, lo saprai, e allora dovrai scegliere un altro sentiero.»

CARLOS CASTANEDA: «Ma come faccio a capirlo?»

DON JUAN: «E’ una cosa che si sente. Il problema è che nessuno si pone questa domanda, e quando un uomo si accorge di aver intrapreso una strada senza cuore, essa è pronta per ucciderlo. Arrivati a quel punto, sono pochi quelli che si fermano a riflettere e abbandonano la strada.»

CARLOS CASTANEDA: «Cosa devo fare per formulare la domanda nel modo giusto, don Juan?»

DON JUAN: «Fallo e basta.»

CARLOS CASTANEDA: «Quello che vorrei sapere è se esiste un metodo per non mentire a se stessi credendo che la risposta sia positiva quando in realtà non lo è.»

DON JUAN: «Perché dovresti mentire?»

CARLOS CASTANEDA: «Forse perché in quel momento la strada sembra piacevole e divertente.»

DON JUAN: «Sciocchezze. Una strada senza cuore non è mai piacevole. Devi lavorare duramente anche per intraprenderla. D’altra parte è facile seguire una strada che ha un cuore, perché amarla non ti costa fatica.»

 

Carlos Castaneda, Gli Insegnamenti di don Juan, pagg. 145 e 211
A Scuola dallo Stregone pagg. 86 e 129

 

 

Una vacanza intorno a un filo d’erba

27 febbraio 2014 at 15:16

filoderba

 

Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba
Dove non c’è il troppo di ogni cosa
Dove il poco ancora ti festeggia
Con il pane e con la luce
Con la muta lussuria di una rosa

Franco Arminio

Azimut – Per noi che Controcamminiamo

23 febbraio 2014 at 15:35

collage-Bukoski.jpg

 

Quando un cammino è sbagliato è anti-boheme, grasso, anti-estetico e NON è buono.

… Con grossi piedi e l’alito cattivo, uomini
Che sembrano rane, iene, uomini che camminano
Come se il ritmo non fosse mai esistito, uomini
Per i quali è intelligente assumere e licenziare
E guadagnarci su, uomini con mogli dispendiose, proprietari
Di 60 acri di terra da sondare
O da valorizzare o da cintare per difendersi
Dagli incompetenti …
Uomini che stanno in piedi davanti
A finestre larghe nove metri e non vedono nulla,
Uomini con panfili di lusso che possono navigare
Intorno al mondo e tuttavia non escono mai fuori
Dalle tasche del loro panciotto, uomini come chiocciole,
Uomini come anguille, uomini come lumache,
E non altrettanto buoni …

 

Tratto da “Qualcosa per i soffietti, le suore, i garzoni dei droghieri e te” - Charles Bukowski

(Illustrazione: Collage di Francesco Persi su illustrazione di Jennifer Lefevre)

 

 

Sprecare passi

13 febbraio 2014 at 09:02

Io-viaggio-da-sola

 

“Sì, uscire, perché una cosa che io faccio sempre, oltre a leggere, è camminare: cammino quando devo pensare, quando sto male, quando sto bene, quando devo risolvere un problema. Se tutti fossero come me, i calzaturifici sarebbero più quotati delle società petrolifere. Mia nonna, per sbarazzarsi dai cattivi pensieri, usava il ventaglio. Ogni tanto, la sorprendevamo, e magari era gennaio, che si sventagliava a tutta birra. Lei usava il ventaglio, io uso le gambe (o, da un altro punto di vista, spreco passi). E’ questo che mi ha detto un’amica che un giorno è rimasta sbalordita dal fatto che, invece di aspettarla al ristorante dove avevamo appuntamento, le sono andata incontro”.

Maria Perosino, Io viaggio da sola, Einaudi

Collage di Camilla Paolucci

Balmat e Paccard: simboli della storia alpinistica

17 gennaio 2014 at 11:12

Paccard e Balmat

In quanti modi si può intendere la parola Cammino?
Andrea Marini, filosofo e ricercatore racconta – attraverso l’esperienza dei primi due alpinisti Paccard e Balmat – che esiste un Cammino in senso filosofico-esistenziale e un cammino che mobilita il Sè per raggiungere la vetta, la meta, il fine.
La montagna riunisce i due significati in una metafora per chi la affronta… in esergo, Valter Bonatti.

 

Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono,

altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi.

 W. Bonatti

 

 

La montagna non è solamente un inerme ammasso di pietra e terra. È questo e molto altro.
È segno della natura e della storia, dello spazio e del tempo; è un simbolo che storicamente è andato mutando, con frequenza variabile. Il cambiamento non è qualcosa che avviene nell’instante dell’accadere, ma un lungo percorso preparatorio che ha un incedere singolare. Le terre alte, dunque, non sono solamente la spazzatura del mutamento della terra attraverso i secoli – come diceva John Evelyn delle Alpi; non sono solo ostacoli da oltrepassare – come lo erano stati per migliaia di viaggiatori o commercianti – o traguardi da raggiungere, come diverranno in seguito. Sono elementi caratteristici di un ambiente, di un territorio, di un paesaggio. Le Alpi sono il simbolo forse più autentico e plenario di tutto ciò. Quando Horace-Bénédict de Saussure alzò gli occhi al cielo, presumibilmente una mattina, e notò che il paesaggio che aveva di fronte – costante negli anni della sua vita, quasi inerme e immobile – aveva delle linee e degli elementi di bellezza unici, capì che gli parlava in una lingua che un grande scienziato come lui non poteva non riconoscere: la natura gli si rivolgeva mostrando una grafia che l’uomo a lungo ha tentato di decifrare, tramite segni che solo lo sguardo più attento e curioso riescono a cogliere nella loro particolarità e unicità. Quando il 3 agosto del 1787 il ginevrino giunse sulla vetta da lui tanto agognata, quella del Monte Bianco, non si lasciò trasportare però da sentimentalismi romantici, ma con audace spirito illuministico calpestò con vigore la neve e il ghiaccio che tanto lo avevano fatto stremare in quella lunga scalata al tetto d’Europa. Calpestò con vigore perché l’uomo, allora, si sentiva protagonista della storia universale. Pochi avevano fatto proprie le verità che le scienze e le filosofie stavano divulgando. L’uomo non era il re, ma semplicemente un elemento partecipante la grandezza della natura.
Così, de Saussure portava in sé la meraviglia e il dominio tipico di un’epoca, ma anche la brama e l’invidia. Infatti, quando pubblicò il secondo volume dei suoi Voyages dans les Alpes, 1778, non incluse tra i grandi esploratori del massiccio del Monte Bianco uno scienziato come lui: Michel-Gabriel Paccard. Quest’ultimo è ormai riconosciuto universalmente come l’artefice e il trascinatore della cordata – strano nome visto che allora si procedeva ancora slegati – che portò l’uomo sopra la vetta più alta d’Europa. Con lui vi era Jacques Balmat, cercatore di cristalli, conoscitore dell’ambiente alpino e, da quel momento, alpinista.
Poco meno di un anno prima dello scienziato di Ginevra, i due personaggi appena citati – per la precisione l’8 agosto del 1876 – posero i loro piedi su quella vetta da tanti bramata vuoi per il prestigio, vuoi per il succulento premio messo in palio da de Saussure per chi avesse trovato la strada per raggiungere la sommità del monte pallido per eccellenza, vuoi per il desiderio di scoperta e avventura. Ma un mito in quell’istante era caduto, gli spiriti cacciati da quelle altezze, ciò che era maledetto – Mont Maudit – era stato liberato dal suo fardello. Uscire dal mito ed entrare nella storia. Ma ben altro accadde quel giorno: iniziò una rivoluzione. Le Alpi non furono più solamente un luogo di passaggio, ma divennero un luogo di studio, di unione e divisione, un luogo di turismo, ma soprattutto lì nacque ciò che per noi ancora oggi è l’alpinismo. Non vogliamo qui ripercorrere le tappe di questa lunga storia che ancora oggi prosegue e nemmeno vogliamo riscrivere la storia di quei due giorni memorabili, ma solamente continuare a riflettere sui due principali protagonisti della prima salita al Monte Bianco.

Paccard e Balmat, citati in rigoroso ordine d’arrivo su quel cumulo di neve oltre il quale non si poteva che scendere, racchiudono in loro stessi due spiriti che hanno animato l’alpinismo e la sua storia.

Michel-Gabriel Paccard era un medico, giovane, laureato da poco all’Università di Torino che, per desiderio di scoperta e di conoscenza, aveva risposto al richiamo desaussuriano, tentando svariate volte di trovare la via giusta per la conquista della splendida vetta. Nei suoi anni di esplorazione alle pendici del Monte Bianco, il medico fu nominato anche socio e corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Il fardello non era quindi solo quello dello scienziato, ma portava su di sé le speranze della ricerca e della scoperta di un regno perché lì rappresentava più che la sua persona. Se -come dicevamo in apertura – le montagne non sono solo pietre, allora le persone e soprattutto chi fa la storia delle montagne non è solo carne e non è mai completamente solo; porta con sé, costantemente, le speranze e i desideri di molte altre persone – consciamente o meno. Lo spirito che lo animava era dunque affine a quello del borghese de Saussure, uno spirito di ricerca e di scoperta, tale che lo stesso Paccard, in quei due incredibili giorni, oltre alle provviste si portò sulle spalle pure gli strumenti necessari per le misurazioni scientifiche. Tant’è che si fermò alcune volte durante la sua salita per aggiornare e segnare il barometro. Questo non lo portò ad avere risultati esatti sull’altezza del Re d’Europa, ma dimostra quanto il suo spirito non era solo di dominio della natura: infatti non calpestava il ghiaccio e la neve, ma camminava alla ricerca di sapere e di un non-più-oltre che gli strumenti non potevano fornirgli. Era animato da uno spirito puro non corrotto da denaro: era mosso dalla curiosità, dal desiderio della scoperta che lo portarono – come la storia ha insegnato – ad arrivare primo su quel cucuzzolo. Non primo per un primato, non primo per un premio, ma per l’umanità e la conoscenza, per capire la grafia e il linguaggio della natura. Solo attraverso un’esperienza diretta, viva e attiva della natura grazie a uno sguardo contemplatore, si può giungere a scoprire il progetto implicito della natura e di quell’incredibile paesaggio. Fu – infatti – una sua intuizione dovuta ad uno studio mirato e approfondito del territorio, una dettagliata analisi geografica sul campo, a portarlo a trovare la via che si è poi rivelata quella giusta e vincente per quanto perigliosa e difficoltosa. Quel desiderio, quella volontà di potenza e conoscenza, è ciò che gli fece afferrare Jacques Balmat per il cappotto spronandolo a fare gli ultimi passi – e non il contrario come bugiarde storie raccontano. Paccard era mosso da uno spirito antico quanto l’uomo: era lo spirito della conoscenza.
Questa è una delle anime che mosse e muove ancora l’alpinismo in ogni parte del mondo e che ancora può fare tanto per il rapporto tra l’uomo e la montagna e più in generale tra l’uomo e la natura. Questo perché l’alpinismo non è solo l’arte di salire le montagne, ma è un modo di vivere ed esplorare il mondo in tutte le sue dimensioni e sfaccettature.
L’altra anima è quella rappresentata dal non meno importante Jacques Balmat. Il nostro montanaro di Chamonix vanta non solo il primato dell’ascesa al Monte Bianco, ma porta con sé e in sé un modo di vivere più schietto forse, sicuramente meno scientifico di quello rappresentato da Paccard, che narra dell’anima solitaria e introversa del montanaro e  dell’alpinista.
Balmat era un cacciatore di camosci e un cercatore di cristalli che faceva della montagna la sua vita e il suo lavoro. Era un tipo solitario, giovane e forte che per necessità rispose alla chiamata di un bando nel quale si prometteva un premio a chi avesse per primo individuato la via alla cima. Balmat non rispose al bando per brama di soldi, ma per necessità. Non era un uomo ricco e nemmeno benestante – se seguiamo i criteri della cittadinanza borghese, ma era un uomo che lavorava duramente e viveva la montagna nel sua aspetto più naturale, come elemento necessario al proprio sostentamento. Se Paccard durante l’ascesa, infatti, si fermò alcune volte per compiere delle misurazioni, è pur vero che Balmat durante i suoi tentativi di salita, sino al definitivo dell’8 agosto, aveva sfruttato le occasioni per cercare cristalli così da unire entrambe le necessità del momento.
Era anche lui molto intuitivo e forte fisicamente: anche se considerato un abusivo dalle guide di Chamonix – come ci ricorda Enrico Camanni, era da tutti ben voluto in quanto abile e robusto portatore e infaticabile camminatore. Sperimentò, durante uno dei tentativi, il primo bivacco sul ghiacciaio senza che gli spiriti lo intimorissero o torturassero nel sonno. Sopravvisse. Questa esperienza, come quella paesaggistica-indagativa di Paccard, furono altrettanto fondamentali per dare il via alla scalata definitiva che consacrò il sodalizio alpinistico tra uomo e montagna. Il resto è ormai storia e i più validi storici dell’alpinismo hanno già impresso la loro firma narrando questa incredibile e particolare vicenda.
I nostri due esploratori, come abbiamo visto, incarnano quindi due spiriti della storia alpinistica, quello più scientifico e filosofico e quello più pratico e legato ai bisogni di natura.
Noi crediamo che solo recuperando, diffondendo, ma soprattutto, integrando questi due spiriti e prospettive sulla montagna si possa fare molto per le montagne, le Alpi e l’uomo stesso. Nei momenti di crisi bisogna saper creare dei miti e coglierne gli insegnamenti che sanno darci. La crisi che il mondo attraversa non è solo economica, ma soprattutto una crisi di valori nichilistica. Ciò che le montagne e gli uomini di e della montagna possono insegnare è scritto e quotidianamente viene scritto con nuove esplorazioni e scoperte. La montagna è un elemento da vivere, studiare, capire ma soprattutto rispettare. Il Monte Bianco non è stato scalato grazie alla tecnica, ma in virtù della tenacia, dell’armonia con la natura, del desiderio e del genio. È un ambiente che ci ricorda che il progresso non avviene per sostituzione, ma per trasformazione – a volte molto lenta. Le Alpi più di tutti gli ambienti montani ci ricordano questa cosa e continuamente ci suggeriscono elementi per creare nuove prospettive comunitarie, economiche e politiche. Che le montagne siano simbolo di unione e armonia, non solamente delle pietre e che gli uomini siano degli Uomini, non solamente dei consumatori di terra.

Andrea Marini

Andrea Marini, laureato in filosofia con una tesi sul concetto di spazio nella prospettiva geofilosofica, collabora con le cattedre dei professori Davide Bigalli e Luca Bonardi, con le riviste “Nomos” e “Antarès”. Sta conseguendo un dottorato di ricerca in beni culturali e ambientali con una tesi sulle prospettive geofilosofiche delle Alpi a partire dall’analisi della storia dell’alpinismo. Svolge attività di ricerca su problematiche di natura estetica, paesaggistica, geopolitica e geofilosofica

Storia di un seme. Di un uomo che cammina e semina. Di un frutto.

23 dicembre 2013 at 09:07

Auguri

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.

Un passo dopo l’altro, John creò un frutteto.
Questo è l’incipit di una bella storia.

Ma possono essere legati la storia di un Cammino e quella di un frutto? Henry David Thoreau, che di cammino ne capiva, scrisse: “È sorprendente quanto la storia del melo sia strettamente legata a quella dell’uomo”.

Il nome dell’uomo? John Chapman, alias Semedimela che – recuperando i semi del pomo dagli scarti dell’industria del sidro a cavallo dell’Ottocento – iniziò a esplorare la frontiera americana anticipando l’arrivo dei coloni, spargendo i semi e impollinando la terra come un’ape laboriosa.

Robert Price, il suo biografo, disse di lui che “possedeva la spessa corteccia della stramberia”: uomo senza fissa dimora nei suoi vagabondaggi dormiva all’aperto, era vegetariano, considerava crudele abbattere alberi e cavalcare animali, iniziò a camminare scalzo dopo aver pestato con lo scarpone un lombrico.

Il suo profilo divergente, esasperato dal desiderio prometeico di piantare meleti, incontrava il favore degli americani cui portava l’edonismo del mito dionisiaco: l’ebbrezza del sidro. L’America, terra poco adatta alla crescita della vite, stimolava la ricerca del piacere col sidro, nonostante i suoi figli avessero giurato che non era questa la scaturigine del loro viaggio tra le due coste dell’Atlantico.

Ma il cammino della storia della mela era iniziato tempo prima: il melo è originario delle alture del Kazakhstan, dove passava la derivazione settentrionale della Via della Seta. Il nome Alma Ata, la città kazakha, significa “Il padre delle mele”. Da qui, il seme fu portato in Occidente dai mercanti di ritorno dalla Cina – magari sotto la suola delle scarpe o avvolti in brandelli di broccati di seta colorati. Vogliamo solo immaginare l’autunno Kazakho, le sommità delle alture spalmate di punti colorati che si spingono fin dove riescono a scendere a patti con l’altitudine quasi fossero appesi alle nuvole. Poi il seme giunse in America via mare coi Padri Pellegrini.

Il rispetto integralista di Chapman per la Natura, il suo ecologismo inconsapevole e reticente (e chissà: avrebbe accettato questa facile riduzione di sé?), fece sì che continuasse a diffondere semi dai sacchi di iuta e dalle tasche, confutando eticamente la tecnica dell’innesto inventata dai cinesi perché troppo dolorosa. Ma che indubbiamente produceva frutti dal sapore migliore: i meli nati da seme sono “talmente aspri da legare i denti a uno scoiattolo” avvisa Thoreau, che nel corso delle sue passeggiate deve averne assaggiate parecchie di malus domestica frutto dell’inseminazione casuale, paradigma romantico di quella riproduzione spontanea oggi dibattuta anche dagli esperti. Ma il puritanesimo aveva chiuso un occhio sull’edonismo suscitato dall’alcol in virtù delle immangiabili mele di John, nonostante al dio greco Dioniso la religione dei padri preferisse il culto del pensiero geometrico di Apollo (e si sa quanto sia difficile concepire antinomie vivendone la bellezza della mediazione pur conoscendone gli estremismi).

La storia della mela racconta più di altre la bontà del movimento in luogo della stasi con il suo spostarsi da un continente all’altro; quanto sia necessario descrivere e percepire il mondo come il posto del cambiamento di Eraclito, mentore di John Semedimela, piuttosto che il regno della stasi di Parmenide: questi non avrebbe previsto un futuro così glorioso per alcun essere vivente, considerando che la pura reiterazione dell’esistenza, in fondo, non è vita.

John Semedimela ha assecondato l’avanzamento della frontiera rispettando la natura; ha reso ebbro un popolo che voleva crescere all’ombra del Puritanesimo razionalista; ha rifiutato la vivisezione vegetale pur addomesticando la pianura ai suoi obiettivi con il fare sognatore di chi ama la montagna. Un vero funambolo degli opposti.

Elzeard Bouffier, “L’uomo che piantava gli alberi” piantava querce in montagna e sarebbe un bell’esercizio di critica letteraria azzardare un confronto tra i due, nella consapevolezza che il secondo è un personaggio inventato e, come tale, sempre all’altezza delle sovrapromesse fatte al lettore.

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.
Se avete la fortuna di conoscere una persona con queste “dolci” qualità ( è questo l’archetipo culturale, e non solo organolettico, della mela secondo l’autore), e a cui non avete ancora, colpevolmente, fatto un regalo: Michael Pollan, La botanica del desiderio, il Saggiatore.

Trattandosi, Pollan, di un brillante giornalista ambientale, le aporie scientifiche a vantaggio della narrazione sono della scrivente. Me ne assumo la responsabilità rivolgendovi auguri succosi!

Azimut domenicale – La bellezza del cammino

15 dicembre 2013 at 11:04
Lago Scaffaiolo

 

“Non c’è niente di meglio; avanzare grazie alle proprie forze, un piede davanti all’altro ed entrare in una specie di oblio che allo stesso tempo è accresciuta presenza”

 

Tomas Espedal ha diffuso in questa pagina la bellezza cinestetica del cammino e della Natura. Un moderno Pascoli, un antagonista della mitologia urbana, in prosa.

 

Quando gli scarponi sono buoni, quando gli zaini non pesano troppo e non si sentono sulla schiena, quando i vestiti sono asciutti e non ancora fradici di sudore o pioggia, è bello camminare. Non c’è niente di meglio; avanzare grazie alle proprie forze, un piede davanti all’altro ed entrare in una specie di oblio che allo stesso tempo è accresciuta presenza; dimentichiamo che stiamo camminando, dimentichiamo l’atto stesso del camminare e gli sforzi del movimento, e al contempo la vista e l’udito sono più attenti, l’olfatto più fine, viviamo tutto con maggiore intensità. Un uccello si alza in volo, la luce del sole colpisce le cime degli alberi, il vapore si alza dal terreno. Una piccola macchia di anemoni dei boschi risplendono, Acqua che scorre, acqua silenziosa. Un torrente, la trota riposa dietro le rocce in un gorgo, beviamo l’acqua. Neve che si scioglie, impronte nella neve. Una coperta acquitrinosa, eriofori che ondeggiano al vento. Pensiamo meno quando camminiamo a lungo, scivoliamo nel ritmo della marcia e i pensieri cessano, si trasformano in concentrazione su quello che vediamo e sentiamo, quello che odoriamo; questo fiore, il vento, gli alberi, come se i pensieri venissero riplasmati diventando parte di quello che incontrano; un fiume, un monte, una strada.
Non passa molto tempo prima che gli scarponi sfreghino contro i piedi e che i vestiti si inzuppino di sudore e l’unica cosa che pensiamo è dove cercare riparo dal sole. Una dura salita, il caldo che brucia, abiti troppo pesanti, il peso degli zaini, i muscoli che fanno male, il cuore martella, il respiro pulsa, le gambe che prima si muovevano da sole ora non vanno più, le spingiamo, le costringiamo ad avanzare. Abbiamo una regola, un accordo di non lamentarci mai, di non lagnarci l’uno con l’altro; basta una sola espressione di disappunto quando la marcia diventa pesante per rovinare la giornata ad entrambi. Lamentarsi può compromettere un viaggio intero, lo sappiamo, camminiamo in silenzio. E’ questo silenzio a far sì che andiamo d’accordo, che insieme possiamo andare lontano, che ci sopportiamo senza quasi creare distanza; non c’è nessuna distanza tra noi se non quello che pensiamo e i cento metri che ci separano durante la marcia; camminiamo ciascuno per proprio conto, ognuno nel proprio silenzio.

 

Tomas Espedal Camminare, Ponte alle Grazie, 2009
 

Lago Scaffaiolo – Appennino Modenese -  Foto di Valter Fini gentilmente concessa per amicizia di lungo cammino. Grazie.

Sulle tracce di Paul Salopek

10 dicembre 2013 at 10:18

PAUL SALOPEK

 

 

Il passero sulle tracce di Paul Salopek, il due volte Premio Pulitzer, che vede il suo futuro a bordo di un paio di scarponi: per sette anni camminerà ripercorrendo il viaggio dei primi uomini che lasciarono l’Africa per diffondersi nel globo fino alla Terra del Fuoco.

 

Anatomia di una mente compiuta: sulle tracce di Paul Salopek

“Camminare è cadere in avanti.

Ogni passo è un tuffo bloccato, un crollo scongiurato, un disastro evitato. In questo senso, camminare diventa un atto di fede che si ripete ogni giorno: un miracolo in due battute, un tenersi e lasciarsi andare. Per i prossimi sette anni cascherò in giro per il mondo.

Sono in viaggio. Inseguo un’idea, una storia, una chimera, una follia forse.”

 

Così inizia la prima tappa di un lungo e anti-giornalistico reportage storico, antropologico ed etnografico firmato dal giornalista e scrittore statunitense Paul Salopek.

Ma chi è costui? Occhiali, sguardo prensile, capelli rasati, 2 premi Pulitzer, un futuro nuovo che inizia con 33 mila chilometri. A piedi.

Questo, l’anello semantico di un rivoluzionario beachcomber  alle prese – da gennaio 2013 – con il trekking più lungo della storia: 7 anni, dalla Rift Valley alla Terra del Fuoco attraversando l’oceano, sulle orme dei primi colonizzatori del globo terracqueo.

 

I suoi progenitori? Con lui, in trigono perfetto: Jeff Jeffries (James Stewart) il fotoreporter innamorato – con qualche imperdonabile resistenza – di una dea, Lisa Freemont (Grace Kelly) ne La finestra sul cortile. E Bryan Brown, il giornalista del National Geographic sedotto, nelle avviluppate foreste del Congo, dall’intelligenza appuntita e dalla bellezza sportiva di Diane Fossey (Sigourney Weaver) naturalista-ricercatrice di Gorilla nella nebbia. Il primo: ricercata eleganza da grande Gatsby; il secondo, corporeità misurata da Bruce Chatwin.

 

Il suo antenato? Lo storico Erodoto che – nel V sec. a. C. – girava per il Mediterraneo raccontandone le storie e le genti, badando poco alla scientificità di un metodo non ancora inventato: previsti piccoli camei di personaggi mai esistiti, fatti non accertati, impressioni personali.

 

Ed è a partire dalle traiettorie sghembe dei suoi interessi; dal linguaggio letterario – più che giornalistico; da ciò che lascia conoscere di sé grazie a ciò che scrive che ricalcheremo l’anatomia – non autorizzata – dei suoi pensieri. Che cosa farà durante le soste mentre ripercorre il primo pellegrinaggio proto-imperialista della Storia? Accenderà un lume a olio; leggerà da un Mac; scriverà un post per il suo blog Out of Eden Walk dall’iPad; chiacchiererà nella redazione viaggiante in un inglese che, attraversato da un accento culturale all’altro, sembrerà tante lingue diverse; manderà la foto delle mani, indurite dal sole e arrossate dall’henné, di una guaritrice beduina che cauterizza parti del corpo come terapia; telefonerà nell’altro emisfero a chi si chiederà se sia credibile l’amore di un uomo in preda all’erranza millenaria; registrerà i ritmi ancestrali dei canti di chi naviga e sosta nel deserto, anelando alla sponda opposta come un marinaio della duna. O forse: avrà portato con sé la famiglia, vivendo un Cammino di formazione che nessun’altra esperienza didattica potrebbe surrogare. Lo vedo – disteso su una branda di bambù coperta da un batik colorato che rilascerà il blu dove sentirà più caldo – fumare (una Pall Mall, certo) e bere tè alla menta; ascoltare la voce mantrica di Lisa Gerrard che vibra l’Amen apotropaico di Song of dispossessed:

 

The river is deep and the mountain high

How long before the other side

 

Da giorni seguo le sue orme, preferendo alla scienza aristotelica un orientamento patafisico al mondo. Mi incuriosiscono i suoi dispacci postati sul blog, unici indizi per scoprire quale tipo d’uomo sia questo bucaniere scarponiaipiedi. Il caso, come in molte scoperte, ha fatto il resto. Consigliata da Caterina Venturini, ho iniziato a leggere ‘Libertà ‘ di Jonathan Franzen. Quello che vi ho trovato a pagina 14 è stato un vaticinio. C’è chi ha reso letteratura i miei gusti in fatto di Teste ben Fatte:

 

Connie non costituiva una minaccia per una persona compiuta come Jessica. Connie non sapeva che cosa fosse la completezza: era tutta profondità e niente superficie. Quando colorava con i pennarelli, si limitava a saturare d’inchiostro qualche zona del foglio, come incantata, lasciando il resto in bianco e ignorando le allegre esortazioni di Patty a provare qualche altro colore.”

 

Una testa è ben fatta, come quella di Jessica, se è un’apologia della completezza,  flessibile a varie forme di conoscenza, se tratta con cura ogni singolo dettaglio compresi i più belli, quelli frivoli. Immagino così questo globe-trotter: un uomo dallo sguardo ecologico; una persona che – learning by doing – fa di sé un ecosistema di saperi intemperanti e sconnessi, raccontando con intensità e integrandosi in ciò che vede.

 

Volete una prova dell’anatomia di uno sguardo completo del moderno Erodoto? Sedetevi, ascoltate la canzone  dei Dead Can Dance e leggete: questa è una mia traduzione dall’inglese del suo ultimo post. È stato scritto in Arabia Saudita, sul Mar Rosso: 11 mesi di futuro sono già alle spalle. Il suo sguardo ipertrofico sulla natura e la Storia è attento alle parole che risuonano come solo uno scrittore sa fare; è carico di rimandi culturali e storici, che nascondono interessanti novità.

 

Cacciamo e facciamo provviste sul Mar Rosso.

Gassman al Faidi, il nostro nuovo addetto alla logistica, giovane e carismatico Hemingway, dispone le lenze tra le onde della sera. Lo fa più e più volte arrotolando il fine filamento all’indice. Sente il lento richiamo dell’onda, la vibrazione dell’uncino quando urta i coralli, la leggera spinta provocata dalla bocca di un pesce quando prova l’esca 20 o 30 yards sotto il pelo dell’acqua.

Stiamo facendo così da molto tempo: l’amo più vecchio, fatto di conchiglia, è stato trovato a Timor Est in una grotta marina. Risale a 23 mila anni fa.

 

Ma noi vagabondiamo da prima. Nel Pleistocene, 60 mila anni fa, quando gli uomini anatomicamente compiuti lasciarono l’Africa per diffondersi nel mondo, il livello delle acque del mare era più basso di quello attuale. La teoria prevalente sostiene che gruppi di camminatori cacciatori percorrevano le diffuse rotte create dai recenti terrazzamenti. Emergevano ponti di terra che facilitavano gli spostamenti. Sotto il Mar Rosso, una montagna – chiamata Hanish Rill- può aver spinto da sotto le onde offrendo punti di appoggio tra l’Africa e l’Asia, facilitando così la traversata a nuoto o in canoa. Nuove scoperte riscrivono i libri di Storia, modificando le nostre cognizioni sulle colonizzazioni costiere dei primi uomini.

 

Non continuerò traducendo l’intervista a un Funzionario della Cultura dell’Arabia Saudita il cui titolo, però, può essere chiarificatorio: il Mar Rosso. Un ponte, non una barriera. (Leggetela, merita).

 

Dalla preistoria via paleontologia; dalla cultura via piatti tradizionali, Paul Salopek racconta il mondo con il linguaggio universale della fotografia (correte a guardare e poi … Tornate!), con dispacci di narrazioni ‘lente’, ponendosi all’origine di un nuovo genere narrativo, lo slow journalism, che forza contenitori nati per soddisfare curiosità rapide e che non temono la superficialità, laddove necessiti: blog e social media. Lui ha abiurato a questo genere: i suoi post sono lunghissimi – a volte colti, altre divertenti; vi si narrano dettagli che affondano nelle discipline più varie, mettendo alla prova una visione anti-monolitica del conoscere, la curiosità di raccontare dettagli irrelati, approfondire minimalia senza attribuire gerarchie alla conoscenza. Rispetta, così, la mente  e i principi sottesi alla scoperta più che alla comunicazione.

 

D’altronde: uno degli sponsor del viaggio, oltre al National Geographic e a qualche altra non minore istituzione, è l’Università di Harvard: è stata predisposta una sezione del blog dedicata alle risorse didattiche. Tutte le scuole possono accedere a questa esperienza inserendo nella routine della pratica – senza rischio alcuno di banalizzare – un sapere dinamico di notevole interesse storico, naturalistico, scientifico.

 

Quale frase rappresenta meglio Paul Salopek? ”Se in un primo momento l’idea non è assurda, allora non c’è nessuna speranza che si realizzi” – Albert Einstein. Incisa?

 

Camilla Paolucci

 

Disegno di: Lorenzo Paolucci

il sito: http://www.outofedenwalk.com

il blog http://outofedenwalk.nationalgeographic.com

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista a Caterina Venturini

30 novembre 2013 at 19:16

Caterina Venturini

Riconosco che ho impiegato tempo, molto, a preparare questa intervista. E non soltanto perché Quickoffice che uso su l’iPad mi ha rovinosamente dichiarato guerra. Ma soprattutto perché il viaggio a piedi che ho scelto di fare è difficile: ha a che fare con la natura, sì, ma quella umana. So bene quanto sia vischiosa. Così, ho chiesto aiuto. Ho intervistato Caterina Venturini, scrittrice e sceneggiatrice, alle prese con il suo secondo romanzo. Del tema “Donna” non ne fa “Una questione privata”, ma una questione politica. Quindi? Saliamo, a bordo di un paio di scarponi che sappiano dove andare con determinazione senza perdere la tenerezza, la femminilità. La meta? Direzioni variegate, capitalismo, passione, figurazione, rosso, Sé, coppia, generosità, zaino, viaggio, libri. Avete preso i bastoncini?

 

Il Passero Escursionista: Ciao, Caterina. Il tuo esordio letterario ti nascondeva tra le pieghe della trama de ‘Le tue stelle sono nane’, edito da Fazi.

Noi che ci occupiamo di cammino, in senso reale o metaforico (senti di averne fatta di strada?) abbiamo visto il tuo nome nei titoli di coda di ‘Anni felici’, l’ultimo film di Daniele Luchetti, accanto a quello di Rulli e Petraglia. Sembra quasi una scalata …

 

In realtà, le cose più che in verticale prendono spesso direzioni diverse e variegate. La mia esperienza nel cinema parte dalla letteratura. Daniele Luchetti mi ha cercato, dopo aver letto il mio romanzo. Voleva scrivere una storia contemporanea, poi invece un giorno è arrivato con degli appunti che conservava da anni in un cassetto, dicendomi: “Questa è una storia mitologica della mia famiglia. Cosa possiamo farne?”

 

Il Passero Escursionista: Partiamo dall’inizio. Una scena ripetuta del tuo primo libro, oltre all’allegoria nascosta e che ha fatto parlare di “Le tue stelle sono nane” come di un romanzo sperimentale, è quel variopinto ecosistema zoomorfo che popola i tram: persone ritratte come animali che affrontano le loro giornate con ricorsività senza senso apparente. Un romanzo/viaggio di formazione (non professionale) … per giovani donne.

 

E non solo. Credo che anche gli uomini siano sottoposti a regole spietate di selezione. Diciamo però che la morale sociale li favorisce. Il mondo zoomorfo nasce da una mia ricerca di spiazzamento: giocare sugli stereotipi, nominandoli, es. le formiche filippine, ingabbiare le persone in uno status, privarle della loro identità biografica che le vorrebbe diverse le une dalle altre. Questa sarebbe la vera rivoluzione, a cui mai si presterà la società capitalista.

Il Passero Escursionista: Condizionati dall’idea che  il Cammino ha un senso perché ha un fine, il romanzo fa riflettere sulla condizione giovanile, sulla perdita dell’idea di futuro come un dardo orientato verso la meta. Si percepisce, invece, l’idea di un percorso ad anello: d’altra parte l’allegoria del gioco dell’oca … Si parla sempre di futuro dei giovani, come fossero dei multipli. Invece, distinguiamo: qual è il futuro delle giovani donne?

 

Se non potrà essere roseo, mi auguro almeno che sia rosso, il colore della lotta. Come dicevo prima, stavolta però in senso negativo, la diversità biografica fa la differenza, perciò non ci sarà un eguale futuro, mai. Sarebbe già positivo se le giovani donne potessero partire da una base comune di diritti e possibilità. Ma questa è pura utopia. Perciò, la prima qualità che mi sento oggi di augurare loro è la passione, con cui si possono superare molti ostacoli.

 

Il Passero Escursionista: L’unica domanda sull’uomo, quello Invertebrato. Spiegacelo per evitare banalizzazioni … Nomen omen è una di queste?

 

Sì, certamente, ma l’Uomo Invertebrato non corrisponde soltanto a un tipo di uomo passivo e recriminatorio nei confronti della donna, ma anche a una figurazione umana: quella dell’inerzia, del passatismo, della negatività, della distruttività, che ognuno di noi porta con sé.

Il Passero Escursionista: In ‘Anni felici’ tornano sia il tema del viaggio che la questione femminile degli anni Settanta, narrativamente uniti  in una fuga tutta al femminile – sulla costa francese – alla ricerca della libertà e della propria identità, anche sessuale. Ricerca-viaggio è topos noto. Ma è possibile si trattasse anche di una fuga, di una presa di distanza, quindi, di coscienza di un ruolo sbagliato nel rapporto di coppia?

 

Solo con una distanza, spesso anche fisica, si può ripensare al Sé, e soprattutto al Sé in relazione. In Anni felici, i due protagonisti sono alla costante ricerca di un equilibrio tra le esigenze proprie e quelle dell’altro. Credo però che passiamo l’intera vita a misurarci con questa domanda, e ogni volta rispondiamo in un modo diverso. Non esiste in effetti, una posizione giusta per tutte le stagioni. Serena scopre “a distanza” le sue vere esigenze ma sono convinta, se potessimo vederla in un ideale proseguimento, negli anni successivi, la sua posizione nel mondo e nella coppia, continuerebbe a mutare.

 

Il Passero Escursionista: Ammettiamo si tratti di una presa di distanza, significa che nella protagonista c’è stata una crescita? Una scena del film ritrae Serena – la protagonista – nuda, in un’estemporanea d’arte dove Guido, il marito, cerca di provocare reazioni convenzionali negli spettatori perché prendano coscienza dei loro stigmi culturali. Serena è meno complessa e, per la felicità di un  uomo capriccioso e irrisolto, è disposta a strafare. A una prima lettura, forse un Po’ naïf, la sua non potrebbe essere generosità?

 

Assolutamente. Il suo è un gesto di grande generosità, peccato che Guido, che non penserebbe mai di donarsi così nella coppia, fraintenda completamente.

 

Il Passero Escursionista: Sabato scorso è uscita su “la Repubblica” un’intervista a Micaela Ramazzotti, protagonista di “Anni felici”. Sulla nudità del corpo femminile, e su come si sia trasformata la sua percezione, l’attrice avverte del cambiamento da diritto alla completezza di essere e mostrarsi donna a privilegio esclusivo di chi è bella.  Condividi questa idea? Pare un argomento su cui si riflette: sono nelle sale “Gloria” e “La vita di Adele” … con “Anni felici” formano un bel trittico …

 

La cultura visiva ha trasformato il nostro corpo in un luogo di ipercriticismo, spesso è un falso corpo che si crea in assenza di una relazione con il corpo potenziale, ossia il nostro vero corpo. Ciò rende ancora più fragile la nostra fisicità e ci rende schiave di modelli formalizzati dal mercato.

 

Il Passero Escursionista: Il tuo prossimo romanzo, che uscirà a breve: ci dai una piccola anteprima?

 

Il mio prossimo romanzo (quello che ho cominciato a scrivere da poco) parla in effetti proprio di questo. Del potere della bellezza di una donna che avendo ricevuto questo dono più tardi, non alla nascita, decide di farne godere gli altri in un modo molto particolare. Il romanzo in uscita, invece, parla del corpo malato e inadeguato: un’insegnante si trova a vivere un’esperienza ai limiti, in una scuola situata in un ospedale: insegnerà a ragazzi malati fisicamente che vogliono disperatamente vivere, e a ragazzi sani solo fisicamente, che hanno voglia di morire.

 

Il Passero Escursionista: Questo viaggio attorno al Femminile terminerà in un posto neutrale … lo zaino per escursionisti. Quale libro consiglieresti di mettere dentro a donne e uomini, magari da leggere insieme, perché si incontrino come Persone?

 

Libertà di Jonathan Franzen è un romanzo che parla di relazioni tra uomini e donne. Bellissimo.

 

Il Passero Escursionista: scrivici una dedica sulla prima pagina, grazie Caterina.

 

Agli uomini e alle donne che viaggiano, leggono e amano. Tre verbi spesso sinonimi.

 

Letto? Siete solo alla prima pietra miliare …

Camilla Paolucci

Camminare seduce

24 novembre 2013 at 12:45
Azimut-domenicale
“I piedi sono importanti, hanno dunque una storia e vanno elogiati. Sono metafora di tante altre capacità, oltre a quelle più risapute e – come vedremo – essi danno vita a “camminate” assai diverse tra loro. Le nostre attrazioni amorose, del resto, dipendono non poco dal passo, dalle movenze in cammino, dalle sinuosità dell’incedere di chi ci colpisce. Un corpo ci ammalia e seduce per il suo passeggiare e deambulare naturale; più che per quel suo correre al trotto stereotipato in un parco. Ne siamo sedotti da lontano, per come a noi si avvicina o, dopo, ci volge le spalle”.
Duccio Demetrio, Filosofia del camminare